Un mese e mezzo e arriverà il primo giudizio su Trump

Il nuovo bilancio federale, il destino politico di un Donald Trump alle prese con il Russiagate, le nuove nomine della Corte Suprema e la conferma dei prossimi giudici federali; soprattutto: i rapporti di forza tra repubblicani e democratici e quindi il futuro stesso della rivoluzione populista trumpiana: tutto questo dipenderà dal voto che gli americani daranno il 6 novembre prossimo, in occasione delle elezioni di metà mandato.

Sulla carta solo elezioni profondamente ed esclusivamente locali: non ci sono incarichi federali – a partire dalla Presidenza degli Stati Uniti – in palio. Però sono innegabili due cose. La prima che dal loro esito dipenderà moltissimo, se non altro perché il prossimo Congresso potrebbe essere chiamato a pronunciarsi su una eventuale richiesta di messa in stato d’accusa di Trump; la seconda che, da sempre, le elezioni di metà mandato segnano un primo test di gradimento per le politiche del presidente appena insediatosi, I risultati non sono sempre soddisfacenti per la Casa Bianca, e questo ha portato più di un presidente in carica a rivedere profondamente la propria linea politica. Si veda quanto accaduto a Ronald Reagan nel 1982 ed a Bill Clinton nel 1994. Ma anche allo stesso Barack Obama nel 2010.

Questa una breve guida al prossimo appuntamento elettorale, a un mese e mezzo dall’apertura delle urne.

Camera dei Rappresentanti

Maggioranza: 218 seggi

Partito Repubblicano: 240 seggi

Partito Democratico: 195 seggi

Vantaggio per i Democratici

In parole povere, i democratici hanno bisogno di ottenere 24 seggi in più, cosa non impossibile sulla carta: tutti i seggi della Camera sono in palio (cosa che non è per il Senato). Questo potrebbe avere delle ripercussioni, dal momento che anche due anni fa, per le presidenziali, Hillary Clinton ebbe più voti popolari di Donald Trump, e fu solo la distribuzione dei consensi tra i vari stati a permettere la vittoria dei repubblicani.

Altra nota positiva per i democratici il fatto che in ben 39 seggi il candidato repubblicano ha scelto di non ripresentarsi, e questo li rende più alla loro portata, laddove invece i democratici che hanno scelto di lasciare libero il loro seggio sono 27. La situazione è quindi particolarmente incerta in una serie di stati già tradizionalmente giudicati in bilico, come la Florida e la Pennsylvania.

Da tenere d’occhio

Il 17mo distretto della Pennsylvania, dove un candidato democratico seppur molto centrista, Conor Lamb, ha vinto a sorpresa le suppletive dello scorso marzo. Si ripresenta, ed in più l’aver deciso la magistratura il ritocco dei confini del collegio lo ha favorito, almeno teoricamente. Perché due anni fa in quei quartieri di Filadelfia vinse Trump, anche se di poco.

Senato

Maggioranza: 51 seggi

Partito Repubblicano: 51 seggi

Partito Democratico: 49 seggi

Vantaggio per i Repubblicani

Maggioranza repubblicana, ma con il minimo sindacale. Si rinnovano 35 seggi, poco più di un terzo del totale. Ma il Grand Old Party ha un vantaggio: deve difendere 9 dei seggi in palio, mentre gli altri 26 sono problema dei democratici. E non è solo questo: dal momento che, per Costituzione, ogni stato ha due senatori indipendentemente dalla sua popolazione (una norma a tutela della dignità di tutte le componenti dell’Unione), l’essere i Democratici in maggioranza nel voto popolare potrebbe anche non essere di grande aiuto.

Esempio: la California ha 60 volte la popolazione del Wyoming. Entrambi però eleggono due senatori. Quindi basta, sulla carta, un pugno di voti nel Wyoming per riequilibrare una eventuale sconfitta in California. E nei piccoli stati rurali di solito è proprio il Grand Old Party ad essere in maggioranza. A favore dei Democratici solo la situazione in Nevada ed Arizona: i senatori repubblicani uscenti non si ripresentano, e la loro vittoria l’ultima volta è stata di strettissima misura.

Da tenere d’occhio

In Arizona è in palio il seggio che fu del conservatorissimo Barry Goldwater e, in tempi più recenti, di quel John McCain che, prima di morire alcune settimane fa, è stato indicato come l’anima del Partito Repubblicano offesa e osteggiata dal trumpismo imperante. La candidata repubblicana Martha McSally, considerata molto di destra, si trova in difficoltà di fronte alla democratica Kyrsten  Sinema, anche perché in questi anni è aumentata notevolmente la popolazione di origine latinoamericana. Il Grand Old Party , inoltre, è fortemente lacerato al suo interno: la decisione di McCain di non volere Trump al suo funerale ha lasciato il segno.

Governatori

In palio: 34 stati

Repubblicani: 26

Democratici: 8

Insieme ai due rami del Parlamento verranno eletti 34 governatori, ben oltre la metà del totale. A rischiare di più sono i repubblicani, perché devono trovare conferma in 26 stati contro gli 8 dei democratici. Non ci saranno conseguenze dirette sugli equilibri a Capitol Hill, ma l’esito della tornata avrà serie conseguenze perché sono i governatori quelli che si possono opporre o meno all’applicazione pratica delle leggi decise a Washington. Si pensi alla legislazione in materia di traffico di armi, o quello che è stato il dibattito sull’implementazione dell’Obamacare.

Da tenere d’occhio

La Florida: scontro al fulmicotone tra l’afroamericano iperliberal Andrew Gillum ed il trumpista di stretta osservanza Ron DeSantis. La Florida è uno dei superstati, feudo personale per anni della famiglia Bush a sua volta ai ferri corti con Trump. Insomma, si capiranno molte da cose e non solo di politica locale.